Vita straordinaria di sant’Eustachio in quattro appuntamenti

Immagine concessa dalla rivista “Mathera” – Foto. R. Paolicelli

In occasione dei festeggiamenti in onore del santo patrono, benché non solenni a causa del perdurare dei rischi connessi con la pandemia da covid-19, l’Associazione Maria SS. della Bruna, per meglio conoscere un santo molto amato dai materani, presenta in quattro brevi appuntamenti  la Vita straordinaria di sant’Eustachio scritta da Francesco Moliterni.

I La visione

Immagine concessa dalla rivista “Mathera” – Foto. R. Paolicelli


Placido era un ricco patrizio romano, vissuto tra la metà del I e gli inizi del II sec. d.C., forse appartenente all’antichissima gens Anicia, la stessa da cui discenderà poi san Benedetto. Valoroso generale, durante l’impero di Traiano (regnante dal 98 al 117 d.C.) si distinse per numerose vittorie, probabilmente anche nella guerra di conquista della Dacia (l’attuale Romania e parte della Bulgaria). La sua personalità manifestava aspetti contrastanti: capo militare abituato a battaglie sanguinose,  persecutore dei cristiani e, insieme, uomo d’animo buono, generoso verso i bisognosi.

 Egli era sposato con Lilia, che gli aveva dato due figli maschi. Durante i periodi di pace viveva a Roma dedicandosi alla sua famiglia, alla cura dei suoi beni e allo svago, come la caccia. Un giorno dell’anno 100 o 101, però, la sua vita fu totalmente stravolta, poiché, proprio mentre era a caccia nel bosco di sua proprietà, vide un magnifico cervo e prese a inseguirlo finché l’animale, giunto sul ciglio di un burrone, non aveva più scampo, ma grande fu lo stupore di Placido quando, mentre si accingeva a colpirlo a morte, il cervo girò la testa e tra le sue corna apparve una croce luminosissima con la figura di Gesù che così gli chiese: «Placido, perché mi insegui?». Assalito dallo spavento, il generale romano cadde a terra mentre la voce continuava: «Ecco, per te sono entrato in questo animale, per apparirti!». «Chi sei?», ribatté Placido. E Gesù gli rispose: «Io sono Cristo, che senza rendertene conto tu onori, poiché le elemosine che fai agli indigenti mi sono ben note. Mi sono manifestato a te per mezzo di questo cervo per cacciarti e prenderti nelle reti della mia misericordia; non è infatti giusto, per le buone opere che tu compi, mio diletto, servire gli immondi demoni e badare a cose prive di vita e vuote e insensate.»

La visione cessò e Placido, ritrovata per quanto possibile la calma, tornò a casa. Lì giunto, raccontò l’accaduto alla moglie, la quale, però, a sua volta gli riferì un suo sogno della notte precedente nel quale una persona a lei sconosciuta le preannunciò che il giorno dopo ella, insieme al marito, si sarebbero recati da lui. Il giorno dopo Placido, la moglie e i figli si recarono dal vescovo e in lui Lilia riconobbe proprio la persona apparsale in sogno.

Dopo l’incontro col vescovo essi si convertirono, furono tutti battezzati e cambiarono il loro nome: Placido da allora si chiamò Eustachio (o Eustazio), che in greco significa letteralmente “buona spiga”, dunque “ricco raccolto”; Lilia modificò il suo in Teopista e i due figlioletti ebbero il nome di Teopisto e Agapito (o Agapio). Teopista/o in greco significa “credente in dio” e Agapito, invece, “caritatevole”.

II – Le prove dolorose


Il giorno successivo al battesimo, Placido-Eustachio tornò al luogo della visione e ancora una volta Gesù gli apparve per preannunciargli che avrebbe dovuto affrontare prove durissime e dolorose; e gli raccomandò di resistere alle stesse con pazienza. Non passò molto tempo e la sua esistenza si fece drammatica: una malattia sterminò i suoi cavalli, il suo bestiame e i suoi servi; i ladri rubarono tutti i suoi beni. Placido-Eustachio si ridusse in miseria e Roma non poteva più essere il luogo dove vivere: lasciò con la famiglia la capitale dell’impero e si imbarcò per l’Egitto.

Le sventure non erano finite, poiché durante il viaggio il capitano della nave su cui si erano imbarcati si invaghì di Teopista e, giunti a destinazione, la catturò e la portò via con sé. Persa la speranza di ritrovare la moglie, Eustachio continuò il suo viaggio, ma, accampatosi presso un fiume, i figlioletti furono rapiti uno da un leone e l’altro da un lupo. Rimasto totalmente solo, vagò a lungo finché finalmente trovò un lavoro come bracciante e guardiano alle dipendenze di un generoso proprietario terriero.

E gli altri componenti della sua famiglia?
Teopista scampò alle insidie del rapitore, morto per intervento divino, e trovò rifugio nel villaggio in cui era stata portata contro la sua volontà; i due fanciulli, invece, riuscirono a salvarsi grazie al pronto aiuto di un gruppo di pastori e di contadini, che li portarono al loro villaggio, non molto lontano da quello in cui Eustachio poi trovò lavoro, e lì crebbero separati in due famiglie diverse, ignorando alla fine di essere fratelli.

IIIRicongiungimento della famiglia


Passarono 15 anni. I Parti avevano cominciato a minacciare i confini imperiali mediorientali (Armenia e Mesopotamia) e Traiano doveva intervenire per difenderli; si ricordò del valoroso Placido e lo mandò a cercare. Fu in effetti ritrovato, fu riconosciuto grazie ai segni di una vecchia ferita alla nuca e fu riportano a Roma, dove l’imperatore gli affidò il compito di arruolare soldati per formare un esercito. Venne fatta nuova leva tra le province dell’impero per allestire la milizia e tra le reclute vennero accolti anche Teopisto e Agapito che subito si distinsero per qualità morali e militari, cosicché il generale, ignorando che fossero suoi figli, li nominò sottufficiali e li volle vicino a sé, ai suoi diretti comandi. 

Vinti i Parti, le milizie comandate da Eustachio lasciarono i luoghi di guerra, e lungo la strada del ritorno si accamparono presso il villaggio in cui Teopista viveva sostenendosi con la coltivazione di un orto. I due sottufficiali del generale le chiesero ospitalità e durante la permanenza in quella casa, discorrendo della loro infanzia, capirono di essere fratelli. Teopista, ascoltando i loro racconti, riconobbe i figli, ma non svelò subito la sua scoperta. Il giorno dopo, recatasi dal generale per chiedergli di essere aiutata a ritornare in patria, scoprì in lui suo marito e gli rivelò di aver ritrovato anche i loro figli; così la famiglia dispersa poté finalmente ricongiungersi.

IVIl martirio


Mentre Placido-Eustachio si accingeva a tornare a Roma con la famiglia per essere festeggiato l’imperatore Traiano morì (117 d.C.) e gli succedette Adriano, che fu ben lieto di accogliere il generale tornato a Roma vittorioso; pertanto, l’imperatore lo invitò a partecipare nel tempio del dio Apollo al rito di ringraziamento per le vittorie riportate, ma Eustachio si rifiutò dichiarando di essere cristiano: due circostanze – la  disobbedienza a un ordine imperiale e la fede cristiana conclamata – che scatenarono l’ira spietata di Adriano il quale, perciò, ordinò che lui e i suoi familiari fossero sbranati nel circo da un leone; ma la bestia, benché istigata, si inchinò davanti ai condannati e si allontanò senza toccarli. L’imperatore allora comandò che fossero rinchiusi nella pancia di un enorme  toro di bronzo rovente. Si trattava di uno strumento mortale di tortura in uso nell’antichità, detto “Toro di Falaride” dal nome del tiranno di Agrigento, sadico e crudele, vissuto nel VI sec. a.C. che, secondo la leggenda, adottò quell’invenzione attribuita a Perillos di Atene; Falaride, peraltro, fu tanto entusiasta di quell’invenzione che volle provare la sua efficacia proprio sullo stesso fabbro inventore, che, infatti, fu lì rinchiuso e fu acceso i fuoco; quando le fiamme arroventarono il metallo e le urla di Perillos divennero strazianti tanto da somigliare al muggito del toro, il tiranno ordinò che fosse estratto dalla bestia metallica non certo per salvargli la vita, ma per farlo precipitare da una rupe.

Eustachio, la moglie e i due figli morirono subito in quella fornace infernale, ma, benché arroventata per tre giorni, alla sua apertura si scoprì che i loro corpi erano rimasti intatti, tanto che neanche un filo di capello bruciò e nemmeno gli abiti che indossavano. I cristiani  raccolsero i corpi dei martiri e li seppellirono in un luogo su cui poi nel 325, sotto l’imperatore Costantino, fu eretto un oratorio.

Francesco Moliterni